Malinconia di sinistra. Riflessioni sulle elezioni del 4 marzo
Malinconia di
sinistra intitolava Walter Benjamin
un suo breve saggio del 1937. Ce l’aveva con gli intellettuali di sinistra,
tedeschi ed europei, degli anni ‘30, depressi e melanconici perché sopraffatti
dalla “routine”, non più capaci di “provare disgusto”, oggi si direbbe di
indignarsi; “radicali di sinistra” ridottisi a “creare, dal punto di vista
politico, non partiti ma cricche”. La conclusione era senza appello: “questo
radicalismo di sinistra è proprio precisamente quell’atteggiamento a cui non
corrisponde più nessuna azione politica”.
Il risultato del 4 marzo viene infatti da lontano.
Tanto che ha investito l’intero spettro della sinistra e del centro-sinistra:
dal PD, a LEU, a PaP e la lista Bonino.
Il PD è stato punito due volte (al referendum del
dicembre 2016 e alle politiche del 2018) per la sua politica di governo e
istituzionale-costituzionale; ma anche la sinistra radicale per aver dilapidato
dieci anni, dalla costituzione del PD nel 2007 ad oggi, senza riuscire a
costruire un soggetto politico autonomo, capace di progetto, radicamento,
rappresentanza di interessi sociali e civili.
Le “cricche”, cioè le operazioni di mera autotutela
del ceto politico, hanno prodotto, da Sinistra Arcobaleno a Liberi e Uguali,
solo liste elettorali senza progetto politico.
La “melancolia” del vasto mondo della sinistra
(costretto ormai a nascondersi “nel bosco”, a votare Cinque Stelle, quando non
Lega) rimanda dunque a errori e responsabilità di ceto che denotano un deficit
strategico divenuto strutturale. Così ad esempio MDP è stata utile per far
perdere il PD ma non per ricostruire la sinistra, come puntare su Pisapia, cioè
su chi aveva votato “sì” al referendum costituzionale e voleva un “campo
progressista” fiancheggiatore del PD, era evidentemente un errore. Lo stesso
per la lista “Liberi e Uguali”, nata improvvisata e così percepita da un
elettorato di sinistra giustamente esigente. La politica dei due tempi: prima
la lista poi, semmai, il partito, è stata una volta di più esiziale e pagata a
caro prezzo. Lo stesso vale per Sinistra ecologia e libertà, la cui
trasformazione in Sinistra italiana non ha certo fatto dimenticare dieci anni
di “non voglio un partito ma riaprire partita”, cioè di subalternità, a livello
nazionale e locale, al PD.
Ma perseverare è diabolicum
e ancora dopo il 4 marzo c’è stato chi, in area Leu, è tornato ad insistere su
“un nuovo centro-sinistra”, magari senza più le politiche neo-liberiste e anti-Labour degli ultimi decenni. Ma non
c’è centro-sinistra fuori di queste politiche! Storicamente dall’Ulivo al PD di
Renzi, dalle regole di Maastrich al pareggio in bilancio in Costituzione, il
centro-sinistra italiano non è mai stato altro da quelle politiche.
Centro-sinistra senza neo-liberismo è un’aporia. Se non si vogliono più quelle
politiche non si deve voler più il centro-sinistra. Altro è invece rifondare la
sinistra e poi immaginare un inedito programma fra autonomi e diversi.
Questo è il punto. Questo deve divenire il presupposto
politico di ogni seria riflessione sul dopo 4 marzo. Rifare la strada inversa:
da “cricca” a “partito”, ad una “azione politica” strategica e di alternativa.
Altrimenti gli elettori l’antidoto lo trovano a modo
loro. Premiando quelli che sembrano più netti nella ripulsa delle politiche di
precarizzazione del lavoro e della vita e punendo chi certe politiche le ha
incarnate: dal PD a Forza Italia, ma anche i partiti socialisti e conservatori
europei. In mancanza di una alternativa di sinistra, di una sinistra dopo il centro-sinistra, di un socialismo dopo la “Terza Via”, certe domande e bisogni popolari
vengono sospinti nella direzione peggiore, quella dei populismi, dei
nazionalismi, dei razzismi, addirittura dei rigurgiti fascisti.
Non serve abbandonarsi alla “melanconia” o al
fatalismo. Nella storia come in politica c’è sempre una alternativa, ma certo
bisogna costruirla, darle corpo politico e organizzativo, individuarla e
indicarla come orizzonte e speranza.
Le energie ci sono. La grande vittoria al referendum
del dicembre 2016, con l’alta affluenza alle urne, con il voto dei giovani ecc.
dimostra che l’opinione pubblica ha capacità, proprio nei momenti topici, di
cogliere l’essenziale, in primis la
difesa della democrazia e della Costituzione, quando invece le élites e i “radicali di sinistra” la
considerano perduta e compromessa. Ma la classe politica che ha governato la
sinistra negli ultimi trent’anni non ha nessun titolo per dare del populista al
popolo sovrano. Si disponga piuttosto umilmente all’ascolto di una domanda, se
non proprio di un grido di dolore, senza corrispondere ai quali non ritroveremo
mai più il senso del nostro esistere politico.
(Una copia più breve di questo intervento è apparsa sul Manifesto di venerdì 4 maggio 2018)
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